Il Diritto del Decalogo

Da Liberpèdia.

Di François Guillaumat

Prefazione al libro di Patrick Simon, Si può essere cattolico e liberale?, Parigi, 1999.

La norma liberale consiste nel sottoporre tutti i membri della Città ai quattro articoli del Decalogo che riguardano la politica:

— non rubare,
— non desiderare ingiustamente il bene altrui,
— non uccidere,
— non mentire,

quest’ultima norma è inclusa nella politica, perché la maggior parte delle menzogne viola effettivamente il Diritto o sono necessarie all’ingiustizia.

La giustizia liberale, quindi, è conosciuta da tutti, e tutti vi si sottomettono nella loro vita quotidiana, compresi i politici e gli uomini di Stato, quando non agiscono proprio come uomini di Stato. Chi non si conforma a questa giustizia: chi colpisce il suo vicino, aggredisce i passanti per rubarli per strada, uccide sua moglie, finisce in prigione, in ospedale o in morgue. La definizione liberale della giustizia è quindi la definizione normale delle persone normali. Quindi, per quale aberrazione dobbiamo subire le ruberie e altre oppressioni di uno Stato che è socialista come mai prima d’ora? E per quale schizofrenia molti chierici, i cosiddetti «cristiani», e come gli altri consapevoli e rispettosi della giustizia naturale, approvano tutte queste infrazioni e crimini da parte sua?

Il motivo è tipico dell’inganno del Maligno: «tutti sono contro il furto», spiegano i sofisti che lo servono, «ma il furto non esiste di per sé, è la ’legge’ che lo definisce». Per essere chiari, sarebbero gli uomini di Stato a decidere chi è un ladro e chi non lo è. Allo stesso modo dell’[aborto], oggi decidono cosa sia un omicidio e cosa non lo sia[1]. Pertanto, a loro spetterebbe la definizione del bene e del male.

È qui che il liberalismo si oppone allo statalismo: per il liberalismo, un ladro, un assassino non sono coloro che non seguono le procedure riconosciute dallo Stato per derubare il prossimo o mandarlo ad patres: per il liberale, al contrario del democratico-sociale che spesso si fa passare per lui, il ladro è chiunque si appropri del bene altrui senza il suo consenso; indipendentemente dall’aggressore, dalla vittima, dal motivo del furto, dalla destinazione del bottino, dai «bisogni» dei ricettatori, o dal numero di persone che approvano questo furto o negano che lo sia. E secondo gli stessi principi razionali di oggettività e universalità, è un assassino chiunque uccida deliberatamente un innocente. Punto finale: definizioni necessarie e sufficienti. Quanto al Decalogo, basta chiedersi se ordina «farai come dicono gli uomini di Stato», «adorerai la Democrazia» o se, al contrario, ripete «non rubare», «non uccidere», ecc.

Un altro aspetto dell'eritis sicut dei che i chierici sembrano non condannare più come fa il liberalismo: il rifiuto di applicare agli uomini di Stato le prescrizioni universali della morale e del diritto. Per gli statalisti, sembra che ci sia un cappello magico, con scritto sopra «UOMO DI STATO», che trasforma tutte le bugie, tutte le rapine, tutti gli omicidi in una sorta di «giustizia superiore» a condizione di indossarlo. Ma è plausibile, tuttavia, che il Decalogo non si rivolga agli uomini di Stato? Questi divieti di compiere il Male dovrebbero essere esenti da loro perché sono quelli che possono fare di più, essendo gli unici a poter usare impunemente la violenza aggressiva? Non sono esseri umani come gli altri, e ancor di più inclini all’errore e al crimine, essendo quelli che possono costringere gli altri a sopportarne le conseguenze al loro posto? Non sono supremamente coloro che possono mentire, rubare, uccidere?

Che i nostri chierici non si precipitino troppo davanti alla «semplicità» di questa «caricatura». Perché è ciò che implica anche la loro stessa invocazione del «bene comune» contro il liberalismo. Aggiungono solo una formula rituale come condizione di efficacia del cappello, ma la magia dell’incoerenza è la stessa: sì, dicono sostanzialmente, gli uomini di Stato hanno il «diritto» di disporre del bene altrui contro la sua volontà, a condizione di pretestare una particolare destinazione del bottino. Ma la destinazione è indefinibile e il pretesto è assurdo, poiché il principio liberale della non aggressione, come hanno scoperto gli ultimi Scolastici, è proprio la soluzione di questo programma di ricerca chiamato questione del «bene comune».

La non aggressione è l’unica definizione dell’atto giusto che sia verificabile da tutti: definendo come proprietà legittima tutto ciò che non è stato oggettivamente rubato, cioè acquisito con violenza e inganno, questo principio è universale ed esclusivo rispetto a ogni altro. Ammettendo «ma entro certi limiti», perché sostengono che dipende da altre norme presumibilmente «superiori», come il «bene comune», il «diritto alla vita» e altri «destinazione universale dei beni», i chierici non gettano solo la logica oltre bordo: respingendola, abbandonano tutta l’oggettività del Giusto. Consegnano all’arbitrio l’insieme delle regole politiche e sociali e per questo, che se ne rendano conto o meno, abbracciano non solo il soggettivismo, ma l’[utilitarismo]] che sostengono di aborrire. Per definire la giustizia al di là dei criteri del Decalogo, dovrebbero essere in grado di sondare i reni e i cuori. E, naturalmente, chi vuol fare l’angelo fa la bestia. Ecco dove porta trovare più ragionevole, meno estremismo, dire seguendo la formula del Cardinale de Lubac, che due e due sono quattro e mezzo.

L’antiliberalismo dei nostri chierici offre loro molte altre occasioni per rinnegare i principi e i valori del cristianesimo: confondendo la morale con la giustizia, invocano le sue raccomandazioni contro il diritto degli altri, dimenticando —o fingendo di dimenticare— che questo diritto di scegliere è una condizione necessaria dell’atto morale, e prendono per carità questa presunta «solidarietà» che, per riprendere una parola di san Agostino, non è che un brigantaggio statalista. Rubare agli altri sotto il pretesto di aiutare i poveri, è davvero quello che Cristo chiedeva ai potenti? E come credere che lo ammettano per un concreto interesse ad aiutare i bisognosi, mentre il loro «realismo» consiste soprattutto nell’ingerire tutte le dichiarazioni pietose degli uomini di Stato, come se la redistribuzione politica non consistesse per definizione in ciò che i forti rubano ai deboli, i poveri essendo quindi sempre le principali vittime?

Trattando con disprezzo l’obbligo di servire gli altri per servire se stessi che caratterizza le relazioni volontarie della società liberale, accablano di derisioni la «mitica mano invisibile», essi esaltano gli uomini di Stato che distruggono questa «necessità reale» del servizio reso agli altri nel mezzo di discorsi sul presunto «servizio pubblico», un’istituzione che, per natura e per vocazione, è effettivamente dispensata dalla loro violenza sovvenzionista e monopolistica: «non serviam»! Accusano di «idolatrare il mercato» coloro che prendono sul serio le prescrizioni politiche del Decalogo, respingendo la sua definizione dell’«atto giusto» a favore di utopie di «giustizia sociale» che implicano che gli uomini di Stato sarebbero Onnipotenti, Onniscienti e Infinitamente Buoni, e si ritrovano impantanati nel loro «materialismo pratico», poiché sono loro che ragionano seriamente a partire dalle presunte «misure» dei progetti umani con somme di «denaro», avendo perso ogni coscienza dell’«abisso morale» che separa il denaro «onesto» da quello che hanno «rubato». E per parlare di «mercato», chi altro, se non loro stessi, ha sempre quella parola in bocca? La regola di vita che vorrebbero disqualificare è il semplice principio di «non aggressione», intimamente conosciuto e riconosciuto da tutti, come possono farne un mostro se non lo dotano di un nome che nessuno comprende, a cominciare da loro stessi?

Tuttavia, i valori cristiani più spettacolarmente rinnegati dall’antiliberalismo clericale sono i principali: l’amore, e in particolare l’amore per la verità. «Il liberalismo è soprattutto oggetto di falsificazioni.» La più grave, ahimè, fu commessa nel secolo scorso dalla nostra Santa Madre Chiesa che, anziché riconoscere nel liberalismo il suo legittimo figlio, lo ha preso per il contrario di ciò che è: per un «soggettivismo» perché, quando diceva che «coloro che si sbagliano» hanno dei diritti, lei credeva di udire che «l’errore» ne avesse. Tuttavia, dopo due secoli di precisazioni da parte di così tanti liberali esplicitamente o implicitamente sostenitori del «Diritto naturale» (a partire da Locke), che pensare delle descrizioni che ancora lo confondono — o fanno finta — con un «assurdo rifiuto di ogni norma e costrizione», con le misere razionalizzazioni dell’anomismo libertario, rifiutandosi sempre di fare ai liberali la «carità» di considerarli capaci di pensare la «norma politica»? O che chiamano «liberali» precursori dello statalismo totalitario come Hobbes o Rousseau, pseudo-conservatori pluto-cratiches come Guizot e persino — è successo! — autoritari come Bismarck? O ancora, che vedono nel «neo-liberismo» il furto delle loro terre ai contadini, la collusioni dei monopoli di Stato in supermonopoli supranazionali o l’appropriazione personale da parte degli uomini al potere delle ricchezze rubate al popolo dai loro predecessori socialo-comunisti?

È per questo che gli autori di commenti che si vogliono eruditi interpretano storto i pochi pubblicisti di cui si dice loro che sono liberali perché sono economisti competenti, come Friedman o Hayek? Come ignorare l’ipotesi di un «rifiuto di sapere» da parte di coloro che «giudicano il liberalismo» senza «aver letto una riga» di Mises, Rand, Jasay, Rothbard e Hoppe, i suoi più grandi pensatori in questo secolo? Come prendere sul serio questi «pensatori sociali», laureati o addirittura professori di «filosofia politica», che discutono seriamente delle politiche e delle istituzioni «senza conoscere minimamente le loro reali conseguenze», non avendo mai imparato la teoria economica? Che passano il loro tempo ad accusare la «libertà naturale» di causare disoccupazione, povertà, analfabetismo, droga, AIDS, criminalità, quando questi fallimenti della regolazione sociale sono dovuti solo alla «irresponsabilità» e «impotenza istituzionale» che gli uomini di Stato ci impongono con le loro usurpazioni massive e permanenti? Come non dubitare della «sanità mentale» di coloro che tassano di «ultra-liberismo» la nostra società, mentre questi uomini di Stato vi calpestano sempre di più il nostro diritto di decidere delle questioni che ci riguardano, rubando, per redistribuire «a loro condizioni», ben oltre la metà di ciò che produciamo? E soprattutto, come credere che queste persone abbiano sinceramente cercato la Verità?

È per questi ignoranti volontari, che mancano al loro dovere di stato, e ancor più per i loro numerosi ingenui, i cui giudizi si affannano da decenni a confondere, che Patrick Simon ha scritto questo libro. Siate tranquilli: è con molto più riguardo che cerca di avvicinare i suoi lettori a alcune delle dure evidenze che ho appena gettato loro in faccia. È con fatti, esempi, citazioni pazientemente sviluppate che dimostra che la norma politica liberale è almeno compatibile con il cristianesimo. Tanto per dire che è con una spatola, una piccola spatola di legno, che cerca di sgrassare i nostri analfabeti economici alla francese, autori e lettori di denunce pompose contro un liberalismo di cui non sanno nulla e al quale non hanno capito nulla. E se ce ne sono tra loro che non hanno del tutto dimenticato il tempo in cui la Verità li interessava, usciranno dalla sua lettura considerevolmente più intelligenti di quanto vi siano entrati.

  1. NDLR: Come nota Christian Michel: «È intollerabile per un liberale, perché follemente pericoloso per tutti noi, che un qualsiasi governo possa decidere a suo piacimento chi è umano e chi non lo è.» [1] (vedere il riepilogo su Wikipedia : [2]).